Il calcio è solo uno sport, dicono. A più di qualcuno, però, ha migliorato la vita. Nonostante le avversità. Da Murtaza Ahmadi a Leonel Messi, storie di ragazzi che ci hanno sempre creduto.
Murtaza Ahmadi viene dall’Afghanistan, precisamente dalla provincia di Ghazni, non è l’ennesima plusvalenza di un presidente euforico ma è stato in grado di ridar valore ad uno sport. Per ricordarci di lui, dobbiamo tornare indietro di qualche anno, precisamente a fine gennaio del 2016 quando Murtaza si ritrovò – suo malgrado – su tutti giornali: il bambino afghano, figlio di contadini, che indossava una maglia di Messi un po’ particolare. Nessuno aveva i soldi per regalargliela, così lui se la fece da solo con una busta di plastica e un pennarello per scrivere nome e numero del suo idolo. Tanto basta per dar vita ai propri sogni, non importa dove nasci, come cresci e se nel tuo paese c’è la guerra. Un sogno resiste persino alle bombe.
Questa storia ha commosso il Web ed è arrivata fino all’uomo chiamato in causa: Leo Messi, che di povertà e difficoltà ne sa qualcosa, non per via della guerra ma a causa di un’infanzia travagliata che lo ha voluto figlio della semplicità con una patologia invalidante da fronteggiare.
Tuttavia, non si è mai arreso e adesso è il più forte del mondo con la palla tra i piedi. Se lo chiedete a Cristiano Ronaldo non sarà d’accordo, ma poco importa. Quel che conta è che ci sono tanti Murtaza e Leonel in questo mondo a cui, quando lo sconforto prende il sopravvento, basta un pallone per sentirsi ancora vivi. Loro due, almeno, questo hanno potuto dirselo guardandosi negli occhi perché “la Pulce”, dopo aver sentito la storia alla BBC, ha voluto incontrare il piccolo Ahmadi. Soltanto cinque anni, con la faccia di chi, però, ne ha già viste tante. Un lieto fine inaspettato, pregato e sperato, dal sapore genuino che torna alla mente per ricordarci che non tutto è perduto.
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Il calcio è solo uno sport, almeno questo è quello che vogliono farci credere quando assistiamo all’eccessiva incensazione di campioni strapagati “solo per dare due calci al pallone”, basta poi una favola come quella di Murtaza, oppure l’impresa magnifica di un Tabarez qualsiasi, tutt’altro che ordinario, specialmente se chiamare schemi su un rettangolo verde diventa l’unico modo per sentirsi ancora indispensabile nonostante una malattia degenerativa in corso, a farci ricredere. O quantomeno riflettere, volendo ancora sperare che in mezzo al business ci sia nuovamente posto per le emozioni.
Le lacrime dopo un gol sono le stesse che solcano il viso di uomini desiderosi di veder finire guerre, barbarie e scelleratezze. Siamo tutti sulla stessa barca, non sempre il mare è calmo e bisogna ugualmente inventarsi qualcosa per resistere alla tempesta. Spesso un pallone può aiutare più di mille discorsi: come accadde nel 1914, quando inglesi e tedeschi, si ritrovarono casualmente a giocare a calcio.
Senza arbitro, senza punteggio, poche regole e una sola certezza: “Una palla aveva rimpiazzato le pallottole e per la durata di una partita di calcio l’umanità aveva ripreso il sopravvento sulla barberie”, l’ammissione di Ernie Williams – militare che nel Natale del ’14 quella partita l’ha giocata – suona al pari di una carica improvvisa per rammentarci quanto la felicità stia nelle piccole cose. Una porta improvvisata, un pallone sudicio, casacche ravvolte al posto dei pali e si torna a sorridere. Vince chi arriva prima a dieci. Così quel match, tanto simile ad una tregua sul campo di battaglia, venne ribattezzato “la partita della pace”.
Pace invocata, oggi, in Siria dove dal 2011 è in atto un conflitto sanguinoso che ha portato oltre 300mila vittime civili, fra città divise e una distruzione perenne di ideali e possibilità. Eppure, la fiamma della speranza è tenuta viva dal calcio: il campionato, nonostante il conflitto, da quelle parti non si è mai fermato.
Certo, ha subìto interruzioni per motivi piuttosto facili da immaginare, ma non è mai stato sospeso. Segno che, malgrado le avversità, chiunque vuole tornare quanto prima alla normalità fatta anche di prati verdi e strisce bianche, di esultanze smodate e fuorigioco non fischiati.
Dunque, l’evento rilevante diviene una qualificazione Mondiale arrivata dalle gesta di un calciatore nato a Deir el-Zor – cittadina di circa 200mila abitanti nella parte orientale della Siria, nota alle cronache solamente per i grandi attacchi da parte dell’Isis, che ha siglato un pareggio in extremis nella partita contro l’Iran.
Con poco, si cambia prospettiva: dalle lacrime ai sorrisi, per una prodezza. Queste sono le azioni che vorremo vedere e rivedere alla moviola, perché cambiano la storia prima ancora del punteggio. Si mettono fra un destino segnato e la rassegnazione stravolgendo l’ordine delle cose: non è finita fino al fischio finale.
Lo sentiamo dire moltissime volte, ma a dimostrarlo concretamente sono episodi talmente distanti e distinti da farci sentire, comunque, partecipi. Perché quello che per alcuni è soltanto uno sport, per altri è una ragione di vita che attraversa anni, epoche e conflitti con la caparbietà di un tiro sotto l’incrocio dei pali a portiere battuto.
Andrea Desideri