Il giocatore si confessa in una intervista la mensile GQ: “I tifosi hanno tutti i diritti? Neanche per sogno. In Italia non c’è equilibrio”…
“Cerco di essere sempre me stesso, nel mondo in cui lavoro e’ difficile. Viviamo in un’anormalita’ oggettiva”. Sono le parole di Pablo Daniel Osvaldo, in una intervista nel numero di GQin edicola da domani. Uno dei suoi artisti preferiti, Joaquin Sabina, e’ un rivoluzionario antifranchista. “Una persona che per sostenere un’idea ha messo a rischio la sua vita. Un poeta. Un grande narratore. Ti restituisce l’illusione che parli proprio di te. Altri modelli? Frede’ric Beigbeder. Un nichilista che crede nel dogma della velocita’. Se non siamo certi di vedere il domani, dice, e’ meglio correre”. Osvaldo ripercorre la sua carriera, a partire dall’arrivo a Bergamo nel gennaio 2006. “Il 12, compivo 20 anni. Un freddo cane, la neve, l’albergo in mezzo al nulla, circondato dai silos di Zingonia. Arrivato in camera, ho iniziato a piangere. Fu dura. Non c’era un solo argentino, uno straccio di uruguaiano. Ero lontanissimo da casa, i compagni ridevano tra loro. Parlavano una lingua che non capivo. Diventai un po’ paranoico. Pensavo ridessero di me. Poi ando’ meglio e mi integrai”. Le parole ingannano? “A volte non ne serve neanche una. Basta uno sguardo”. Ma con Zeman non comunica a gesti: “Non solo almeno – sorride – Parliamo”. Se non avesse giocato, avrebbe fatto “il musicista rock o blues, o lo scrittore. Scrivere mi piace. Poesie e canzoni. Ieri rispondevo: ‘Voglio giocare a calcio’. Sguardi storti: ‘E se non arrivi?’. E io duro: ‘Non esiste. Io arrivo'”.
Per Osvaldo “il calcio e’ un disperato tentativo di recupero dell’infanzia. Quando gioco con i miei amici sembrano finali da Mundial. Erano ragazzi, adesso hanno la pancia, ma e’ la stessa cosa. Io gioco in porta. Se poi perdiamo, lascio i guanti e torno in attacco. Perdere non mi piace”. L’attaccante giallorosso confessa poi che “ogni tanto vorrei essere una persona qualsiasi.
Andare in una piazza. In Italia e’ impossibile mentre a Barcellona lo facevo, andavo in Placa de Catalunya con un mio amico, lui faceva ritratti ai passanti, io suonavo la chitarra. Non mi riconoscevano. Era bello. E’ affascinante la semplicita’”. Il calcio italiano logora, “non c’e’ mai una via di mezzo. Un giorno sei da scudetto e quello dopo da rogo. La mancanza di equilibrio mi fa infuriare, pero’ non posso farci niente. E non ho voglia di fare niente. Il pubblico pagante non ha tutti i diritti? Ma neanche per sogno. Io perdo una palla e tu mi vomiti addosso il tuo odio? Non e’ normale. E quindi se il tifoso sbaglia al lavoro posso andare a picchiarlo, gettargli una banana o dirgli che sua madre e’ una poco di buono? Bella logica”. Sulla questione degli omosessuali nel calcio Osvaldo ricorda che “la nostra societa’ non e’ l’Alabama del ’50, ma sul tema siamo indietro. Un compagno gay in squadra? Non mi cambierebbe proprio niente. Sono persone libere, prima che calciatori”. Poi, sul calcioscommesse, fa sapere che se scoprisse un compagno venduto non lo denuncerebbe. “Cio’ che succede nello spogliatoio deve restare li’. Io non faccio il delatore, ma non mi volto. In silenzio, lo ammazzo di botte”.