L’ex difensore biancoceleste parla del suo passato…
In una lunga intervista rilasciata a tmwmagazine, Lorenzo De Silvestri ricorda il passato, dalla sua vita romana ai suoi inizi nei campetti della Capitale, fino all’esordio nella sua squadra del cuore: “Sono nato a Monteverde, vicino al Gianicolo, da una famiglia normale, entrambi i genitori dentisti. Sono stati loro a trasmettermi il grande amore per lo sport. Con quale ho iniziato? Con la ginnastica artistica, per allenare il fisico, è stata una disciplina davvero importante. Mi ha forgiato anche nella mente, ma poi non crescevo troppo…”. Poi gli inizi con il pallone tra i piedi, alla Romulea: “Ho costretto, praticamente, mio padre a segnarmi. Feci un provino per una delle più importanti squadre giovanili di Roma e mi presero. Giocavo esterno alto a destra, quindi già alle origini ero già sulla strada del ruolo che faccio adesso”.
Avanti coi ricordi: “Il mio primo allenatore è stato Fabiani, che poi ho ritrovato alla Lazio. Sono rimasto due anni, ho degli splendidi ricordi, anche se sul campo in terra mica era semplice giocare. Poi, proprio grazie al mister, sono andato in biancoceleste: fece il mio nome a Volfango Patarca, talent-scout della Lazio e in un torneo a Reggio Emilia decisero di prendermi”.
Poi il coronamento di un sogno, giocare nella squadra del cuore: “Già: iniziai coi Giovanissimi Nazionali e, seppur con tutte le difficoltà del caso, fu comunque tutto facilitato dal fatto che eravamo per almeno l’80% di Roma. Il primo anno ho giocato terzino destro, feci anche un ottimo campionato, tanto da meritarmi la Nazionale“. De Silvestri comincia con l’Under 16: “Fu una gioia meravigliosa, unica. A Salerno, allo stadio Arechi, con ragazzi più grandi di me come Rossi, Lupoli e Paonessa. Conservo e conserverò per sempre quella maglia. Poi sono andato avanti, a grandi passi, prima con Rambaudi poi con Sesena come allenatore, sino all’esordio in prima squadra a diciassette anni, nel 2005, in Intertoto contro il Tampere“.
In definitiva, Lorenzo ha fatto davvero poca gavetta: “Sono stato fortunato, non lo nego. Primavera, prima squadra, poi i titoli… Ho bruciato le tappe, ma dietro di me ho sempre avuto una splendida famiglia a farmi tenere i piedi per terra. Anche perché la luce dei riflettori ti fa pensare di essere arrivato: le prime gare, i primi autografi, rischi di perdere la testa. Sono stato bravo a non farlo e la mia famiglia a supportarmi”. Parlando di emozioni, come non ricordare la Coppa Italia vinta con la maglia della Lazio: “Ricordo ogni istante di quella partita. Giocai tutta la competizione, fu un orgoglio doppio. La finale, con l’Inter, dopo aver sconfitto Juventus e Milan, a soli vent’anni… Ho ancora negli occhi il rigore di Dabo ed i festeggiamenti per la vittoria”. Poi un addio al veleno con la Lazio: “Sono sincero: mi pento di averne parlato tanto. Ho usato l’istinto, potevo tenermi per me tutte quelle sensazioni e tutti quei pensieri sulla dirigenza e sulla mia gestione. Non è stato facile, è chiaro: ho lasciato la famiglia, gli amici, ma sono cresciuto. Andar via da Roma mi ha aiutato tanto a maturare. Volevo giocare di più, lì avevo tutto e rischiavo di perdere la fame di arrivare, accontentandomi della realtà che vivevo”. Ma le manca Roma? “Casa è sempre casa, sfido chiunque a dire il contrario. Detto e sottolineato che con Firenze ho creato un legame speciale, di Roma mi mancano i vicoli, il centro, le fontanelle, gli amici, la famiglia, le piazze. La vita, la vita che ognuno lascia quando lascia la terra dov’è nato”. A proposito di amici, chi era, per lei, Gabriele Sandri? “Un amico, un amico vero. Ci accomunavano la Lazio e la musica: Gabbo faceva il dj e con lui del mio lavoro parlavamo pochissimo. Lo porterò sempre con me, nel cuore”.